Centro di Ateneo Migrare
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Nella dimensione dell’Università di Palermo come Università dell’accoglienza, Migrare svolge attività di ricerca, di coordinamento, di impulso, di formazione e di terza missione in tema di migrazioni, mobilità, dignità della persona e promozione dei diritti, curando i raccordi tra riflessioni teoriche e pratiche operative e promuovendo il dialogo con Centri di ricerca e formazione nazionali e internazionali, con il sistema scolastico, con le rappresentanze studentesche e del mondo delle migrazioni, con il tessuto della società civile. Con queste finalità Migrare costituisce un Osservatorio permanente dell’Università di Palermo sulla condizione e sulla natura del migrare e dei migranti, con un approccio inclusivo e di dialogo.
Le principali linee di ricerca che Migrare intende promuovere concernono i seguenti macro-ambiti tematici:
a) persona e tutele;
b) culture, immaginari, educazione;
c) salute globale e vulnerabilità;
d) spazi sociali e territori;
e) ambiente.
Migrare si ispira a principi di cooperazione e apertura, dischiudendo pertanto la propria compagine a una pluralità di soggetti (Istituzioni pubbliche e private di ricerca, associazioni, migranti, società civile) che condividono l’ethos del dialogo e dell’accoglienza e le dimensioni della tutela e della promozione della dignità della persona, e auspicando l’affermazione di una società plurale e multietnica in cui il riconoscimento universale dei diritti e delle differenze sia prassi costante e condivisa.
Migrare sui social
La comunicazione del Centro di Ateneo Migrare si arricchisce di due nuovi canali social istituzionali Facebook e Instagram.
A ciascuna delle cinque macro-aree tematiche di Migrare, corrispondenti alle principali linee di ricerca che il Centro intende promuovere, si è scelto di attribuire un codice cromatico per facilitare la lettura dei post all’interno delle piattaforme social e rendere le iniziative di ciascuna macro-area facilmente individuabile.
01. Persone e tutele, coordinato dal prof. Giuseppe Di Chiara del Dipartimento
di Giurisprudenza];
02. Culture, immaginari, educazione, coordinato dalla prof.ssa Mari D’Agostino del Dipartimento di Scienze Umanistiche;
03. Salute globale e vulnerabilità, coordinato dal prof. Vito Di Marco del Dipartimento Promise;
04. Spazi sociali e territori, coordinato dalla prof.ssa Gabriella D’Agostino del Dipartimento Culture e Società;
05. Ambiente e agricoltura, coordinato dal prof. Fabio Lo Verde del Dipartimento di Scienze Economiche, Aziendali e Statistiche.
Tali canali social, insieme alla pagina web dedicata all’interno del sito Unipa costituiranno le piattaforme entro le quali avverrà la comunicazione degli eventi, delle notizie e delle attività del Centro di Ateneo Migrare.
Stay tuned…
Report | Mental health of refugees and migrants
Seminario | Strutture di detenzione per migranti e richiedenti asilo
Convegno | Sull'indifferenza
Riconoscimento | Premio CIR Migrare
Comunicato | CIR Migrare | marzo | 13 | 2023
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Convegno | Il mare, la morte, l’asilo
Comunicato | CIR Migrare | novembre | 08 | 2022
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Come Centro Interdipartimentale di Ricerca (CIR) Migrare dell’Università degli Studi di Palermo non possiamo restare immobili e silenti di fronte a quanto accade nel mare Mediterraneo, nelle acque internazionali e in quelle territoriali italiane, e sulle nostre coste.
Da troppi anni i temi delle migrazioni e dell’accoglienza sono strumento di propaganda elettorale, creazione di consenso e polarizzazione dell’opinione pubblica. Si tratta di questioni che invece richiedono una seria analisi del fenomeno migratorio in tutte le sue dimensioni e correlazioni, sostenuta da un approccio oggettivo ed equilibrato, che parta dalla priorità della tutela dei diritti fondamentali delle persone coinvolte.
Per questa ragione, mentre esprimiamo preoccupazione per le sorti delle persone che si trovano a bordo delle navi di soccorso, riteniamo indispensabile che l’Università assuma la responsabilità del suo ruolo, mettendo i propri saperi a disposizione di un’analisi accurata di ogni aspetto degli accadimenti in oggetto.
A questo fine, è intenzione del CIR Migrare preparare, nella prima settimana del mese di dicembre 2022, un convegno interdisciplinare nella città di Palermo, che metta a confronto le migliori competenze a disposizione sul tema, coinvolgendo il mondo accademico, le scuole e la società civile tutta, in una riflessione condivisa che contribuisca a sottrarre ogni terreno a pregiudizi e strumentalizzazioni.
Manifestazione | Europe for Peace
Convegno | Wayfarer citizens
Martedì 13 e mercoledì 14 settembre al Dipartimento di Giurisprudenza (Di.Gi.) dell'Università degli Studi di Palermo si tiene il convegno internazionale "Wayfarer citizens: rethinking the categories of migration".
L'iniziativa, organizzata nell'ambito delle attività del progetto di eccellenza del Di.Gi., affronta il tema delle migrazioni da un punto di vista multidisciplinare con la partecipazione di giuristi, antropologi, sociologi e scienziati della politica.
È possibile seguire l'evento in modalità a distanza, previa registrazione, al link: https://tinyurl.com/wayfarercitizens
Bando | Premio CIR Migrare
In quelle frontiere si scrive il futuro dell’Europa.
Comunicato del CIR Migrare dell’Università di Palermo sulle gravissime violazioni dei diritti di uomini, donne e bambini in cerca di asilo.
Il Centro Interdipartimentale di Ricerca Migrare dell’Università di Palermo esprime profondo sgomento per le violenze e le gravissime violazioni dei diritti fondamentali subite alla frontiera tra Polonia e Bielorussia da migliaia di uomini, donne e bambini inermi e in cerca di protezione.
Dovrebbe essere sufficiente ad allarmare le coscienze di ciascuno e ciascuna di noi già il fatto che ai parlamentari europei nell’esercizio delle loro prerogative, come ai giornalisti internazionali che esercitano il loro diritto di cronaca, sia vietato avvicinarsi a quel confine; o che donne e uomini della società civile rischino ogni giorno e ogni notte di essere arrestati perché cercano di salvare la vita di altri esseri umani, portando loro vestiti, acqua e cibo.
Quello che sta accadendo non è solo disumano – come è possibile che un bambino siriano di un anno muoia di freddo in una foresta europea perché non riesce a chiedere asilo in uno Stato membro dell’Ue? – ma è anche assolutamente illegale. I respingimenti di massa sono vietati dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato del 1951, dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali (art. 4, Protocollo 4), come dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (art. 19).
Il diritto d’asilo, sancito all’art. 18 della stessa Carta, è un diritto universale (art. 14 della Dichiarazione universale dei diritti umani), non soggetto ad alcuna forma di discriminazione né condizionalità: il rispetto dei suoi principi, a partire da quello di non-refoulement, è obbligo inderogabile per ogni stato membro dell’Ue.
Eppure, duemila persone in fuga da guerre e persecuzioni sono descritte come “un tentativo di destabilizzare l’Europa”, senza dire che nello stralcio costante del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto dell’Ue è la vera fonte di destabilizzazione di tutto quello su cui l’Unione europea ha dichiarato di fondarsi.
La Bielorussia è accusata di utilizzare i profughi come armi contro la Polonia e l’Unione europea. Ma le violenze polacche e i respingimenti di massa, dalle fatali conseguenze, che stanno avvenendo con l’avallo delle istituzioni europee, sono l’arma che l’Europa sta rivolgendo contro se stessa.
Non sono solo i diritti degli “altri” ad essere calpestati. È il nostro stato di diritto; sono le garanzie e i principi assunti come fondamentali anche dalle costituzioni europee, come quella italiana; è lo stesso progetto di un’Unione fondata sul diritto e sui diritti a naufragare ai confini dell’Europa.
Lo vediamo in tanti Stati membri a trazione sovranista, in cui sessismo, omofobia, razzismo, nazionalismo e violazione dei diritti civili e delle libertà fondamentali stanno velocemente crescendo come fenomeni contigui.
Di fronte a tutto questo, la reazione delle istituzioni europee lascia sgomenti tanto quanto le azioni della Bielorussia e della Polonia. L’apertura di canali umanitari per poche migliaia di persone che hanno diritto di chiedere e ottenere protezione internazionale sarebbe stata sufficiente a disinnescare tutto l’orrore cui stiamo assistendo. Ma non è questa la scelta che l’Ue ha deciso di compiere, nonostante a quel confine ci siano anche tanti profughi di paesi, come l’Afghanistan, la cui crisi grava anche sulle coscienze del nostro continente.
Ma si tratta della stessa Ue che ha siglato un accordo come quello con la Turchia, nel 2016, che viola in blocco i principi che sostanziano il diritto d’asilo. Si tratta della stessa Ue che ha avallato e sostenuto il Memorandum siglato nel 2017, e rinnovato nel 2021, tra Italia e Libia, che ha permesso la cattura e il respingimento di 23.000 persone nel solo 2021 in quelli che anche Papa Francesco ha definito i lager del nostro presente.
In queste frontiere si sta scrivendo il futuro dell’Europa. E noi, docenti, ricercatori e ricercatrici, studiose e studiosi prendiamo posizione senza mezzi termini contro quelle politiche nazionali e dell’Unione europea che, nonostante il monito della storia del nostro continente, stanno sacrificando legalità costituzionale e dignità umana in nome di una realpolitik che non può che portare verso nuovi baratri.
All’Unione europea e ai suoi stati membri, a cominciare dal nostro, chiediamo di invertire la rotta prima che sia troppo tardi, e ci impegniamo a opporci a questa deriva, come possiamo, nelle nostre attività di insegnamento, ricerca, produzione e divulgazione del sapere.
Di seguito il link dell'appello a cui ha aderito il CIR Migrare tramite il presente comunicato:
Caso Camara Fantamadi | Appello al Presidente della Repubblica Italiana
Signor Presidente della Repubblica,
la morte di Camara Fantamadi, sfinito dopo una giornata di lavoro nei campi, indigna. È un fantasma del passato che ritorna, il fantasma dello schiavo, dell’uomo che si spacca la schiena sotto il sole per pochi spiccioli, senza diritti e senza assistenza di alcun tipo. La morte di Camara Fantamadi non è un episodio, ma è esemplificativa di un fenomeno di sfruttamento di enormi dimensioni che accade sotto i nostri occhi e nell’inerzia delle autorità politiche, amministrative e giudiziarie di uno dei Paesi più industrializzati del mondo.
Riteniamo che lo Stato italiano sia tenuto a restituire a sue spese la salma di quest’uomo, morto così sul suo territorio, ai suoi familiari e di porgere le sue scuse per non averlo voluto proteggere a sufficienza, al pari di qualsiasi altro lavoratore, bianco o nero egli sia. Riteniamo che un simile gesto sia dovuto, oltre che per ragioni di umana pietà, per rispettare i valori posti al più alto grado del nostro ordinamento giuridico. Il diritto di chiunque, cittadino o straniero, a non essere sottoposto a schiavitù, servitù e lavoro forzato è riconosciuto dalla nostra Costituzione e dai trattati internazionali sui diritti umani di cui l’Italia è parte.
Patrick George Zaki, l’Egitto e noi
Tratto dal manifesto di Luca Cimino
Questo articolo del Prof. Aldo Schiavello, Ordinario di Filosofia del Diritto e Direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell'Università degli Studi di Palermo, è stato pubblicato su giustiziainsieme.it il 29 marzo 2021.
Sommario: 1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti” - 2. L’età dei diritti - 3. La crisi dell’età dei diritti.
1. “Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”
La vicenda è nota[1]. Il 7 febbraio 2020 Patrick George Zaki, studente di un master internazionale in studi di genere e diritti umani presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna nonché attivista presso la ong Egyptian Initiative for Personal Rights (EIPR), è arrestato all’aeroporto del Cairo, dove era atterrato per una breve vacanza in Egitto, e viene sottoposto a detenzione preventiva su richiesta dei pubblici ministeri del tribunale di Mansoura, sua città natale. L’accusa è di istigazione a proteste e propaganda di terrorismo attraverso la pubblicazione sui social network di notizie false finalizzate a turbare la pace sociale e a rovesciare il regime egiziano. Anche l’ultima udienza per decidere sulla scarcerazione dello studente bolognese, il 28 febbraio scorso, ha dato esito negativo, nonostante l’attesa e le pressioni del mondo occidentale e, in primo luogo, dell’Italia.
Il caso Zaki non è diverso da numerosi altri casi di grave violazione dei diritti umani in Egitto. A differenza della maggioranza di tali casi, la vicenda Zaki si caratterizza per l’attenzione, sia istituzionale sia mediatica, del mondo occidentale. Le università italiane, a partire da una mozione dell’università di Bologna, hanno sottoscritto un appello di preoccupazione per la vicenda di Zaki all’indomani del suo arresto; un appello di Amnesty International che chiede la liberazione immediata dello studente egiziano è al momento stato sottoscritto da più di centocinquantamila persone; il senato accademico dell’Università di Palermo, di cui faccio parte, ha deliberato di attribuire a Patrick Zaki e alla memoria di Giulio Regeni il titolo di benemerito della nostra università; al fine di mantenere alta l’attenzione sul caso, numerose trasmissioni televisive italiane hanno sostituito gli spettatori, la cui presenza è inibita dalla pandemia in corso, con sagome di Patrick Zaki; i servizi e le inchieste giornalistiche e televisive sul caso Zaki non si contano; le città italiane sono invase da cartelloni stradali che invocano la liberazione di Patrick Zaki; la street artist Laika ha presentato – prima a Roma, vicino all’ambasciata egiziana e, poi, a Bologna, vicino al Rettorato dell’Università – un’opera toccante in cui Giulio Regeni abbraccia Patrick Zaki rassicurandolo che nel suo caso andrà tutto bene, e si potrebbe continuare a lungo. Che tutto questo favorisca la scarcerazione di Zaki è discutibile. Basti pensare che il 3 dicembre scorso tutti i dirigenti dell’Eipr sono stati liberati mentre Zaki continua a essere ristretto in carcere. Ciononostante, ritengo che, quando sono in ballo violazioni così gravi di diritti, non sia moralmente lecito tacere nemmeno per ragioni tattiche o di opportunità. Si tratta di casi in cui bisogna farsi guidare dall’etica dei principi e non dall’etica della responsabilità, per usare le categorie di Max Weber.
L’indignazione per la continua violazione dei diritti umani perpetrata dal regime egiziano di Abdel Fatah al-Sisi è pienamente giustificata. Al riguardo, si suggerisce la lettura del Report sull’Egitto di Amnesty International, pubblicato nel 2019, con l’emblematico titolo Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution. L’esergo del rapporto riproduce una frase pronunciata da al-Sisi a seguito dell’uccisione di Hisham Barakat, procuratore che, dopo la caduta a seguito di un colpo di stato militare del Presidente Mohamed Morsi nel 2013, ha perseguito numerosi islamisti: «The hand of prompt justice is shakled by laws»[2]. Proprio per evitare che le garanzie processuali e il rispetto dei diritti umani potessero rallentare il perseguimento dei crimini perpetrati da terroristi sono stati ampliati a dismisura i poteri della Supreme State Security Prosecution (SSSP) sino a trasformarla, questa è l’accusa principale di Amnesty International, in un modo per reprimere qualsivoglia opposizione al regime di al-Sisi. I centotrentotto casi approfonditi nel rapporto lasciano poco adito a dubbi e la raccomandazione di Amnesty International alla comunità internazionale di fare tutto il possibile affinché tale stato di eccezione permanente venga sostituito da un ritorno alla legalità e dal rispetto dei diritti umani è ineccepibile. Insomma, l’Egitto attuale è senz’altro uno di quegli stati che John Rawls definisce fuorilegge[3]; tali stati rappresentano una minaccia per i popoli liberali e decenti e, proprio per questo, non dovrebbero essere tollerati da questi ultimi.
È invece sul comportamento degli stati “decenti” che è opportuno fare qualche considerazione. Si può davvero dire che le gravi violazioni dei diritti umani perpetrate in Egitto siano state prese sul serio e combattute con intransigenza dai paesi che dovrebbero avere a cuore i diritti umani? La risposta a tale domanda è purtroppo negativa. Le azioni ufficiali intraprese nei confronti dell’Egitto non sono andate oltre la petitio principii e l’esortazione a rispettare i diritti umani.
La Risoluzione del parlamento europeo del 18 dicembre 2020, dopo aver posto l’accento sulle gravi violazioni dei diritti umani in Egitto, ribadisce: a) l’esigenza che la cooperazione nei settori dell’emigrazione e del terrorismo non dovrebbe comportare un affievolimento delle pressioni per il rispetto dei diritti umani e la rendicontabilità per le violazioni dei diritti umani; b) l’invito agli stati membri a sospendere le licenze di esportazione in Egitto di qualsiasi attrezzatura che possa essere utilizzata a fini di repressione interna nonché a sospendere tutte le esportazioni verso l’Egitto di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature in grado di facilitare gli attacchi contro i difensori dei diritti umani; c) l’invito all’Unione europea di dare piena attuazione ai controlli sulle esportazioni in Egitto di beni che potrebbero essere utilizzati a fini repressivi o per infligger torture o la pena capitale.
Il 25 gennaio 2021 il Consiglio degli affari esteri dell’UE si è anche occupato brevemente del caso Regeni e, in generale, della situazione dei diritti umani in Egitto, esortando il paese africano a cooperare con l’Italia affinché venga fatta giustizia.
Il 12 Marzo 2021 il Comitato dei diritti umani dell’Onu ha approvato una Dichiarazione congiunta sottoscritta da 31 paesi, tra i quali l’Italia, in cui si si stigmatizzano per l’ennesima volta le gravi violazioni dei diritti umani in Egitto e si esortano le autorità di questo paese a cooperare con il Comitato al fine di migliorare la situazione egiziana in relazione alla tutela dei diritti umani.
A fronte di queste pur flebili prese di posizione, il 7 dicembre 2020 il Presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron ha conferito ad al-Sisi la gran Croce della Legion d’onore, la massima onorificenza della Repubblica. Alle critiche veementi che sono seguite a questa decisione, Macron ha replicato laconicamente: «È più efficace avere una politica di dialogo esigente anziché un boicottaggio che ridurrebbe solo l’efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo»[4]. La Realpolitik prima di tutto! Un comportamento non dissimile peraltro da quello tenuto dal governo italiano presieduto da Paolo Gentiloni che nel 2017 ha stipulato un accordo con la Libia – il cosiddetto Memorandum di intesa tra Italia e Libia – attraverso il quale si è perseguito l’obiettivo di una drastica riduzione degli sbarchi di migranti in Italia al prezzo di chiudere entrambi gli occhi sulle gravi violazioni dei diritti delle persone migranti da parte della cosiddetta guardia costiera libica e nei centri di detenzione libici.
L’Italia, pur apparentemente in prima fila per la tutela dei diritti in Egitto a causa dei casi di Giulio Regeni e Patrick Zaki, è tra i principali esportatore di armamenti in Egitto. E questo nonostante non manchino leggi e direttive che vietino l’esportazione di armamenti verso paesi i cui governi siano responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in tema di diritti umani[5]. Inoltre, il nostro paese potrebbe compiere un passo concreto rispetto al caso Zaki attribuendo a quest’ultimo la cittadinanza italiana. In questo modo, le richieste di scarcerazione provenienti dall’Italia acquisirebbero ben altra forza e non potrebbero essere rispedite al mittente da parte delle autorità egiziane con l’argomento – comunque pretestuoso – che Zaki è un cittadino egiziano e, dunque, la comunità internazionale non ha titolo per intromettersi nei fatti interni dell’Egitto. Benché la richiesta di conferire a Zaki la cittadinanza italiana sia pervenuta da più parti, anche attraverso una mozione bipartisan presentata in Senato, è purtroppo facile prevedere che essa resterà lettera morta.
Volendo tirare le somme, il caso Zaki ci interroga più su noi stessi che sull’Egitto. Possiamo ancora dire che la cultura dei diritti umani – per usare l’espressione del filosofo argentino Eduardo Rabossi – sia ancora egemone nel nostro mondo? Rispondere a questa domanda non è semplice. In ogni caso, bisogna partire da una breve presentazione della cultura dei diritti che si è sviluppata nel mondo dopo il secondo dopoguerra.
2. L’età dei diritti
Per un lungo tratto della nostra storia recente la centralità dei diritti umani non può essere negata[6]. Non a caso Norberto Bobbio denomina l’epoca contemporanea l’età dei diritti. Egli spiega con chiarezza ciò che tale espressione connota: «dal punto di vista della filosofia della storia, l’attuale dibattito sempre più ampio, sempre più intenso, sui diritti dell’uomo, tanto ampio da aver ormai coinvolto tutti i popoli della terra, tanto intenso da essere messo all’ordine del giorno delle più autorevoli assise internazionali, può essere interpretato come un “segno premonitore” (signum prognosticum) del progresso morale dell’umanità»[7]. L’idea del “segno premonitore”, Bobbio la riprende espressamente da Immanuel Kant, che a sua volta individua nella Rivoluzione francese l’esperienza, l’evento, in grado di mostrare la disposizione e la capacità del genere umano «… a essere la causa del suo progresso verso il meglio e (poiché ciò dev’essere l’azione di un essere dotato di libertà) il suo autore»[8]. L’età dei diritti è l’esito di quella che Bobbio, sempre seguendo la lezione di Kant, definisce una rivoluzione copernicana che consiste nel considerare il rapporto tra governanti e governati non più dalla prospettiva dei primi ma da quella dei secondi, a partire dalla consapevolezza della priorità dell’individuo.
L’età dei diritti è dunque l’esito di una rivoluzione che parte dall’illuminismo, che ha messo al centro della riflessione politica l’individuo, non considerando più quest’ultimo come una mera parte del tutto rappresentato dalla società e dallo stato. Prendendo ancora in prestito le parole di Bobbio, si può esprimere questo concetto dicendo che “lo stato è fatto per l’individuo e non l’individuo per lo stato”. Una emblematica vignetta del 1950 raffigura i componenti della commissione dei diritti umani che redasse la Dichiarazione universale come scolari che ascoltano la maestra, Eleanor Roosevelt, nella realtà presidentessa della commissione, la quale, con la bacchetta in mano li indottrina: «allora, bambini, tutti insieme: “i diritti degli individui sono superiori ai diritti dello stato”».
Dell’illuminismo, l’età dei diritti incorpora anche la fiducia nella ragione ed enfatizza il ruolo di quest’ultima nella costruzione di una cosmopoli di individui che hanno diritto a pari dignità e rispetto.
Da un punto di vista storico, l’età dei diritti designa il periodo che va dalla fine della Seconda guerra mondiale sino (quasi) ai giorni nostri. Essa intende marcare una radicale rottura rispetto ai totalitarismi e alle atrocità che hanno caratterizzato il periodo antecedente ed è espressione della fiducia dell’umanità nella possibilità di un reale progresso morale universale, che presuppone la condivisione di alcuni valori, il rispetto degli individui e dei loro diritti, il rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie. La fiducia e la scommessa in un futuro migliore sono, senza dubbio, la cifra dell’età dei diritti.
Si può anche dire che l’età dei diritti è la risposta dell’umanità all’orrore della Shoah. Per usare le parole di Isaiah Berlin, ciò che caratterizza la prima metà del novecento è «la divisione dell’umanità in due gruppi – gli uomini propriamente detti e un qualche altro ordine di esseri di rango più basso, razze inferiori, culture inferiori, creature, nazioni o classi subumane, condannate dalla storia […] Questo nuovo atteggiamento permette agli uomini di guardare a molti milioni di loro simili come ad esseri non completamente umani, e di massacrarli senza scrupoli di coscienza, senza che avvertano il bisogno di salvarli o di metterli in guardia»[9].
Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo, pubblicato all’indomani della seconda guerra mondiale, individua il limite dei diritti umani, sino a quel momento, nel non garantire effettivamente tutti gli esseri umani ma solo i cittadini di uno stato sovrano. Scrive Arendt: «Anche i nazisti, nella loro opera di sterminio, hanno per prima cosa privato gli ebrei di ogni status giuridico, della cittadinanza di seconda classe, e li hanno isolati dal mondo dei vivi ammassandoli nei ghetti e nei Lager; e, prima di azionare le camere a gas, li hanno offerti al mondo constatando con soddisfazione che nessuno li voleva. In altre parole, è stata creata una condizione di completa assenza di diritti prima di calpestare il diritto alla vita»[10].
Significativo a questo proposito il racconto che Primo Levi fa del suo incontro ad Auschwitz con il dottor Pannwitz, capo del reparto di chimica. L’aspetto dell’incontro che più colpisce Levi è che non sembra un incontro tra esseri umani ma tra «… due esseri che abitano mezzi diversi» e che si scambiano sguardi «…come attraverso la parete di vetro di un acquario»[11]. Si può ricordare in relazione alla divisione dell’umanità in due parti anche il celebre dialogo tra la zia Sally e Huckleberry Finn[12]. Quest’ultimo, per trarsi d’impaccio, giustifica così il proprio ritardo: «non è stato perché ci siamo incagliati...quello ci ha fatto perdere poco tempo. È scoppiata la testa di un cilindro». La zia Sally, preoccupata, domanda: «Santo cielo! S’è fatto male qualcuno?». La risposta di Huck è perentoria: «Nossignora. È morto un negro». «Be’, è una fortuna, perché a volte la gente si ferisce», commenta sollevata la zia Sally.
I diritti umani, dunque, rappresentano un baluardo contro ciò che è insopportabilmente sbagliato o, ricorrendo ancora a Berlin, contro l’idiozia morale. Tutto questo può essere riassunto dicendo che i diritti umani tutelano la dignità di tutti gli esseri umani; impediscono che alcuni esseri umani possano guardarne altri come attraverso il vetro di un acquario. In definitiva, il progresso morale promesso dai diritti umani consiste nel rendere le nostre comunità sempre più inclusive.
L’ideologia dei diritti umani ha anche contribuito al passaggio dallo stato di diritto allo stato costituzionale. Se la “sovranità” è il segno distintivo dello stato moderno, la “crisi della sovranità” lo è dello stato contemporaneo. Negli stati costituzionali contemporanei la sovranità viene duplicemente limitata. All’interno, la potestas legibus soluta e superiorem non recognoscens degli stati è negata mediante «…l’invenzione […] della rigidità delle costituzioni quali norme superiori alle leggi ordinarie e [la] conseguente penetrazione nel diritto positivo, in aggiunta all’originaria razionalità puramente formale e procedurale, di una razionalità assiologica o sostanziale»[13].. All’esterno (cioè nei confronti degli altri stati), la fine della sovranità «è sanzionata […] dalla Carta dell’Onu varata a San Francisco il 26 giugno 1945 e poi dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo approvata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite»[14].
Riguardo a quest’ultimo aspetto della limitazione della sovranità, mi limito qui ad alcuni brevissimi cenni esplicativi. Il fatto che ogni stato nazionale fosse titolare, prima del 1945, di una sovranità assoluta implicava che l’ordine giuridico mondiale si presentasse come uno stato di natura hobbesiano i cui soggetti, anziché gli individui, erano gli Stati. Come rileva Ferrajoli, infatti, l’attributo principale della sovranità esterna degli stati era lo ius ad bellum.
Questa situazione comincia a mutare nel 1945 quando viene varata la Carta dell’Onu la quale, nel preambolo e nei primi due articoli, introduce il divieto della guerra.
La sovranità esterna degli Stati nazionali viene ulteriormente limitata dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, attraverso la quale i diritti umani vengono trasformati «…in limiti non più solo interni ma anche esterni alla potestà degli Stati»[15].
Non stupisce che Bobbio individui tre condizioni necessarie dell’età dei diritti: riconoscimento e protezione dei diritti dell’uomo, democrazia e pace. «[S]enza diritti dell’uomo riconosciuti ed effettivamente protetti», scrive Bobbio, «non c’è democrazia; senza democrazia non ci sono le condizioni minime per la soluzione pacifica dei conflitti che sorgono tra individui, tra gruppi e tra quelle grandi collettività tradizionalmente indocili e tendenzialmente autocratiche che sono gli Stati, anche se sono democratiche coi propri cittadini»[16].
Quest’ultima osservazione di Bobbio fa comprendere con chiarezza come l’idea soggiacente alla cultura dei diritti sia l’indisponibilità a considerare questi ultimi come fini da perseguire tra gli altri fini. I diritti sono bilanciabili, sì, ma solo con altri diritti. Essi rappresentano la precondizione imprescindibile di un mondo che aspiri a che non si ripetano le tragedie della prima parte del secolo breve. Si può affermare che questa idea sia ancora in auge?
3. La crisi dell’età dei diritti
I diritti umani sono in crisi? Se si osserva la realtà da un certo angolo visuale e, aggiungerei, pervasi da uno stato d’animo incline all’ottimismo, la risposta non può che essere negativa. Amartya Sen ritiene che vi sia «…qualcosa di profondamente seducente nell’idea che ogni persona in ogni parte nel mondo, a prescindere dalla sua cittadinanza e dalla legislazione del suo paese, sia titolare di alcuni diritti fondamentali che gli altri devono rispettare»[17]. Stefano Rodotà, in uno dei suoi ultimi libri (il cui titolo, non a caso, riprende un’espressione di Arendt), osserva non senza soddisfazione: «Oggi assistiamo a pratiche comuni dei diritti. Le donne e gli uomini dei paesi dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente si mobilitano attraverso le reti sociali, occupano le piazze, si rivoltano proprio in nome di libertà e diritti, scardinano regimi politici oppressivi; lo studente iraniano o il monaco birmano, con il loro telefono cellulare, lanciano nell’universo di Internet le immagini della repressione di libere manifestazioni, anche rischiando feroci punizioni, i dissidenti cinesi, e non loro soltanto, chiedono l’anonimato in rete come garanzia della libertà politica; le donne africane sfidano le frustate in nome del diritto di decidere liberamente come vestirsi, i lavoratori asiatici rifiutano la logica patriarcale e gerarchica dell’organizzazione dell’impresa, rivendicano i diritti sindacali, scioperano; gli abitanti del pianeta Facebook si rivoltano quando si pretende di espropriarli del diritto di controllare i loro dati personali, luoghi in tutto il mondo vengono “occupati” per difendere i diritti sociali. E si potrebbe continuare»[18].
È innegabile che la rivendicazione di diritti soggettivi e, più in generale, l’uso massiccio del linguaggio dei diritti permeino il dibattito pubblico contemporaneo e la cultura giuridica. Questo lo abbiamo visto anche in relazione al caso Zaki: quanti appelli, quante iniziative in nome dei diritti umani! È anche del tutto evidente che il processo di costituzionalizzazione dei nostri ordinamenti giuridici sia compiuto. Le costituzioni, ed i diritti da esse riconosciuti, infatti, non rappresentano più soltanto – né principalmente – un argine all’esercizio discrezionale del potere (legislativo, in primo luogo); a seguito di un radicale mutamento di prospettiva, la funzione primaria del potere legislativo è divenuta quella di sviluppare i principi costituzionali. Ma questo è sufficiente a rassicurarci? Il fatto che i diritti vengano evocati ad ogni piè sospinto è una prova decisiva circa la buona salute del costituzionalismo?
Come si è detto (par. 2), un tassello cruciale dell’età dei diritti è la fiducia nel fatto che i diritti umani rappresentino una tappa importante del progresso morale dell’umanità. Non si tratta tuttavia di una fiducia ingenua, né della fiducia inerte di chi attende la manna dal cielo. E neanche della fiducia impaziente di chi vuole tutto e subito. Sempre Bobbio ci mette in guardia dai facili ottimismi: «la storia dei diritti dell’uomo, meglio non farsi illusioni, è quella dei tempi lunghi. Del resto, è sempre accaduto che mentre i profeti di sventure annunciano la sciagura che sta per avvenire e invitano a essere vigilanti, i profeti dei tempi felici guardano lontano»[19].
Casi come, tra gli altri, quelli di Giulio Regeni e Patrick Zaki minano la fiducia che caratterizza l’età dei diritti. Si deve ricordare, tuttavia, riprendendo le parole di Bobbio, che “la storia dei diritti umani è quella dei tempi lunghi”. Il monito di Bobbio ci aiuta a non cedere alla tentazione di decretare con troppa fretta e superficialità la fine dell’età dei diritti. Piuttosto, è il caso di domandarsi se il discorso dei diritti possegga o meno le risorse per superare gli ostacoli che incontra sul suo cammino recuperando così il proprio ruolo di signum prognosticum del progresso morale dell’umanità.
Pur non ambendo ad essere annoverato tra i “profeti di sventura”, temo che la forza propulsiva della cultura dei diritti sia agli sgoccioli; ormai, infatti, il linguaggio dei diritti è l’idioletto attraverso il quale avanzare pretese e rivendicazioni nell’arena pubblica se si desidera che le une e le altre abbiano delle chance di essere accolte. Non è forse troppo azzardato sostenere che l’uso retorico e spregiudicato del linguaggio dei diritti al fine di incrementare la forza delle proprie rivendicazioni politiche sia uno degli esiti pressoché inevitabili della costituzionalizzazione degli ordinamenti giuridici. È indicativo al riguardo che John Rawls, autore la cui influenza sul dibattito filosofico-politico contemporaneo difficilmente può essere sovrastimata, consideri la ragione pubblica – che non è altro che il “distillato” della cultura dei diritti – non come uno “sbarramento” ma, piuttosto, come un “linguaggio comune” o come un “traduttore” degli argomenti e delle ragioni che vengono presentati nel dibattito pubblico. La ragione pubblica richiede cioè che la discussione pubblica sugli elementi costituzionali essenziali e sulle questioni di giustizia fondamentale venga condotta entro i limiti della concezione politica della giustizia, ma non presuppone che vi sia un’unica concezione politica della giustizia condivisa da tutti.
La retorica dei diritti è particolarmente odiosa in relazione ai migranti che, oggi, presentano alcune analogie con gli ebrei nella Germania nazista. Osserva Gustavo Zagrebelsky che «le Convenzioni internazionali e, spesso, le Costituzioni nazionali non fanno differenze tra cittadini e stranieri, quando si tratta della protezione minima essenziale della dignità delle persone. Ma questa tutela, chiara dal punto di vista giuridico estratto, è oscura dal punto di vista della realtà concreta»[20].
È possibile che la situazione sia ancora peggiore di come la prospetti Zagrebelsky; almeno in alcuni casi, infatti, è già sul piano normativo che, a dispetto di un generico tributo al rispetto dei diritti fondamentali, si prevede in realtà una violazione degli stessi. Un rapporto di Amnesty International pubblicato qualche anno fa, ad esempio, denuncia in modo circostanziato numerosi casi di violazioni dei diritti dei migranti da parte delle forze dell’ordine all’interno degli hotspot, dove si identificano i migranti al momento del loro primo ingresso nel territorio europeo. Come era prevedibile, alla pubblicazione del rapporto hanno fatto seguito polemiche e smentite. La questione rilevante tuttavia è che la normativa europea sugli hotspot a fatica può essere ritenuta compatibile con la cultura dei diritti. Il Consiglio dell’UE individua una serie di pratiche per “costringere” i migranti a…cooperare (un bell’esempio di ossimoro!). Tra queste è previsto, in casi estremi, anche l’uso della forza, in misura del “minimo necessario” e nel rispetto della dignità e dell’integrità fisica del migrante. Ora, nonostante questi caveat, quasi delle formule di stile, è evidente che l’assenza di norme che disciplinino in modo dettagliato e pignolo i limiti all’uso della forza negli hotspot, apra le porte all’arbitrio e sia potenzialmente criminogena e contraria alla cultura dei diritti, assimilando il migrante ad un potenziale nemico. È significativo che, come sottolinea uno studio, il termine hotspot sia utilizzato, in tempi di guerra, per indicare le zone in cui sono attivi i combattimenti, nonché, in tempi di pace, le zone di guerriglia urbana[21].
Il passaggio ulteriore, che il caso Zaki, tra gli altri, mostra non essere così impensabile, consiste nel rinunciare anche a tributare un rispetto formale e di facciata ai diritti umani, considerando questi ultimi sacrificabili anche per esigenze di Realpolitik[22]. Si tratta di un passaggio senza ritorno rispetto al quale è opportuno opporre tutta la resistenza possibile.
Riferimenti bibliografici
Rapporto annuale amnesty international italia 2017. Come le politiche dell’unione europea portano a violazioni dei diritti di rifugiati e migranti.
Amnesty International Report 2019. Permanent State of Exception. Abuses by the Supreme State Security Prosecution.
Arendt H. 2009, Le origini del totalitarismo (1951), Torino, Einaudi.
Belardelli G. 2020. Ma per Macron al-Sisi è degno della Legion d’onore, in “Huffington Post”, 10/12/2020.
Berlin I. 1990. Il legno storto dell'umanità. Capitoli di storia delle idee, Adelphi, Milano.
Bobbio N. 1992. L’età dei diritti, Einaudi, Torino.
Cornet C. 2020. Il caso di Patrick Zaki e l’ambiguità delle relazioni tra Italia ed Egitto, in “Internazionale”, 13/02/2020.
Di Meo R. 2020. Il caso Zaki e i diritti umani in Egitto, in “Opinio Juris”, https://www.opiniojuris.it/il-caso-zaky-e-i-diritti-umani-in-egitto/
Ferrajoli L. 1997. La sovranità nel mondo moderno, Laterza, Roma-Bari.
Kant I. 1965. Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio (1798), in Id., Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Utet, Torino.
Levi P. 1992. Se questo è un uomo (1958), Einaudi, Torino.
Liverani L. 2021. Caso Regeni. Le Ong a Di Maio: l’Italia può bloccare le armi all’Egitto da tutta l’Europa, in “Avvenire”, 25/01/2021.
Neocleous M. & Kastrinou M. 2016. The EU hotspot. Police war against the migrant, in «Radical Philosophy 200», 2016, pp. 3-9.
Rawls J. 2001. Il diritto dei popoli (1999), Comunità, Milano.
Rodotà S. 2012. Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, Laterza.
Schiavello A. 2016. Ripensare l’età dei diritti, Mucchi, Modena.
Sen A. 2004. Elements of a Theory of Human Rights, in “Philosophy & Public Affairs”, 32, n. 4, pp. 315-356.
Twain M. 2007. Le avventure di Huckleberry Finn (1884), Rizzoli, milano.
Zagrebelsky G. 2017. Diritti per forza, Einaudi, Torino, p. 86.
[1] Per una ricostruzione più articolata, si rinvia a Di Meo 2020.
[2] «La mano di una giustizia immediata è incatenata dalle leggi» (trad. mia).
[3] Cfr. Rawls 2001.
[4] Belardelli 2020.
[5] Cornet 2020 e Liverani 2021.
[6] Per una analisi più articolata delle questioni brevemente presentate in questo paragrafo mi permetto di rinviare a Schiavello 2016.
[7] Bobbio 1992, p. 49.
[8] Kant 1965, p. 218.
[9] Berlin 1990, p. 253.
[10] Arendt 2009, p. 409, corsivo aggiunto
[11] Levi 1992, p. 95.
[12] Twain 2007, p. 277.
[13] Ferrajoli 1997, p. 33.
[14] Ferrajoli 1997, p. 39.
[15] Ferrajoli 1997, p. 40.
[16] Bobbio 1992, p. 258-259.
[17] Sen 2004, p. 315.
[18] Rodotà 2012, p. 5.
[19] Bobbio 1992, p. 269.
[20] Zagrebelsky 2017, p. 86.
[21] Neocleous & Kastrinou 2016,.
[22] Ringrazio Alessandra Sciurba per avermi indotto a riflettere su questo ulteriore passaggio della crisi dei diritti umani.
Link alla galleria dei poster da cui è tratto il manifesto a corredo di questo articolo.
Poster per Patrick Zaki
Nel Laboratorio di Comunicazione visiva tenuto dal prof. Cinzia Ferrara, gli studenti* del Cdl in Disegno Industriale hanno partecipato al contest internazionale Free Patrick Zaki, prisoner of conscience promosso da Amnesty International Italia e dall’associazione Posterfortomorrow, col supporto di amministrazioni pubbliche e diversi partner.
Il contest ha avuto l’obiettivo di selezionare e raccogliere poster per chiedere la scarcerazione di Patrick Zaki, lo studente egiziano, detenuto come prigioniero di coscienza da più di un anno, e ha rappresentato l’occasione per riflettere su un tema importante e attuale come il rispetto dei diritti umani, che ha coinvolto gli studenti e li ha spinti a tradurre il messaggio in un artefatto grafico piccolo e potente come il poster.
Visualizza la galleria dei poster
Per ulteriori informazioni:
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Libertà in gabbia
Christian Arcodia
Violence_Justice_Freedom
Annalisa Catti, Sofia D’Alessandria, Noemi Elena Dattila
Libertà dai meccanismi che intrappolano
Michela Cataldo
Siamo tutti nati liberi e uguali
Giorgio Gabriele Dispenza
La sofferenza della conoscenza
Rossella Crapa
La sofferenza della conoscenza
Rossella Crapa
Free Patrick
Rossella Crapa
#Free Patrick Zaki
Claudio Trapani
Freedom for the Egyptian people (mp4)
Claudio Trapani
Prison blackboard
Mariateresa Visconti
The right to freedom
Ilenia Di Leo, Francesca Soldano
The right to education
Ilenia Di Leo, Francesca Soldano
Prigioniero di cultura
Maddalena Fiorentino
Freedom
Francesco Castiglia
Luce di libertà
Simona Ciappa
La trappola dei social
Michele Di Galbo
Le mani dell’espression oppression
Calogero Luca Cimino
Oppression
di Cimino Calogero Luca
Choose expression
Calogero Luca Cimino
Express your-self fucks you
Calogero Luca Cimino
Prisoner of conscience
Calogero Luca Cimino
Messaggio della Caritas e dell’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi di Palermo sull’ordinanza del presidente della Regione Sicilia del 22 agosto 2020
I componenti del CIR Migrare condividono con la Caritas e con l’Ufficio Migrantes dell’Arcidiocesi di Palermo preoccupazione e dissenso nei confronti dell’Ordinanza n. 33 del 22 agosto 2020 emanata dal Presidente della Regione Sicilia On. Nello Musumeci. La ricerca scientifica e la coscienza civica che alimenta le attività del CIR Migrare non possono che contrastare un provvedimento che ignora i basilari principi di riconoscimento dei diritti umani e che strumentalizza l’emergenza pandemica per finalità discriminatorie e razziste.
La Caritas Diocesana di Palermo con l’Ufficio Migrantes esprimono forte preoccupazione e fermo dissenso nei confronti dell’Ordinanza n. 33 del 22 agosto 2020 emanata dal Presidente della Regione Sicilia On. Nello Musumeci. Ciò che preoccupa nel testo del provvedimento, e nelle dichiarazioni rese alla stampa per presentarlo, è l’argomentazione solo in apparenza logica ma in realtà deficitaria sul piano razionale, nonché su quello umano ed evangelico.
L’Ordinanza parte in verità da una costatazione del tutto condivisibile, mettendo in luce l’enorme disagio in cui versano oggi sia la popolazione siciliana, sia i migranti affluiti sulle nostre coste in questi mesi estivi. I motivi: penuria di strutture idonee all’accoglienza, assenza di servizi adeguati, mancata redistribuzione in ottemperanza agli accordi europei, deresponsabilizzazione degli altri Stati membri della CEE, fughe da hotspot e centri sovraffollati.
Ma già a questo livello la lettura del fenomeno si rivela fuorviante. Il disagio, il dolore, la fatica vengono giustamente attribuiti agli abitanti delle nostre isole senza prendere però in considerazione anche lo stato e il destino di migliaia di donne, di bambini e di uomini in fuga dalla fame e dalle guerre, che concludono in Sicilia, in maniera indegna, un lungo esodo in cerca di libertà e di vita buona. Come ha fatto notare a più riprese Papa Francesco, se dividiamo l’umanità in persone di serie A e di serie B, se non ci facciamo carico del dolore di tutti, siamo destinati al fallimento umano e politico.
Infatti, la conseguenza logica di questa situazione dovrebbe essere una serie di atti amministrativi e legislativi volti a coniugare sicurezza e solidarietà, a tutelare i Siciliani e ad accogliere in maniera dignitosa i più poveri della terra. L’Ordinanza invece sceglie la via dell’ennesima negazione del diritto umano alla mobilità, la via mistificante di una nuova cosciente discriminazione.
Tutti ricordano come la Regione Sicilia aveva nei mesi scorsi, per bocca dello stesso Presidente, prefigurato misure di controllo severissime per i turisti orientati a trascorrere le loro ferie in Sicilia (trovandosi tra costoro, anche persone provenienti da paesi ad alta diffusione primaria del covid). Di quel che fu preannunziato a maggio finora non si è visto nulla, né si sono messi in atto protocolli di sicurezza volti ad evitare assembramenti o altre forme di pericolosa promiscuità.
Ma se coloro che provengono dai paesi del Nord del mondo, interessati fortemente dal coronavirus, possono muoversi ed entrare liberamente in Sicilia, perché i migranti no? Al contrario, quanti provengono dai paesi del Sud del mondo, quanti sono sottoposti giornalmente allo sfruttamento dell’Occidente, quanti hanno ‘ricevuto’ il covid dal Nord del pianeta, come una ennesima piaga, costoro no, non possono muoversi liberamente: rappresentano un pericolo sanitario. I poveri sono dunque pericolosi, devono essere discriminati, mentre proprio il covid ci ha insegnato che di fronte alla malattia siamo tutti uguali, che il virus non distingue i ricchi dai poveri, e si diffonde tra gli uni e tra gli altri, a causa degli uni e a causa degli altri, senza differenze di sorta. Il nostro Arcivescovo, Mons. Corrado Lorefice durante il discorso alla Città del Festino di S. Rosalia il 14 luglio scorso ha ribadito: “Se il virus non ci ha insegnato che il destino del mondo è uno solo, che ci salveremo o periremo assieme; se la pandemia ci ha resi ancora più pavidi e calcolatori, facendoci credere di poter salvare il nostro posto al sole, siamo degli illusi, dei poveri disperati. Basta con gli stratagemmi internazionali, con i respingimenti, basta con le leggi omicide”.
Con l’Ordinanza del Presidente Musumeci si trasmette dunque, a nostro parere, un messaggio intimamente sbagliato e antropologicamente pericoloso. Intimamente sbagliato, perché si attribuisce ai migranti la responsabilità di una diffusione del contagio che casomai è da attribuire alla mancanza di protocolli e di misure adeguate a tutelare i cittadini dell’isola e chiunque venga in Sicilia dall’Italia e dall’estero. Antropologicamente pericoloso, perché equipara i poveri agli untori e divide ancora una volta l’umanità in due, inconsapevolmente preparando e non evitando la catastrofe planetaria che verrà da un mondo disunito e disumano. È incredibile – dopo anni di studi e di ricerche sull’invenzione del capro espiatorio quale forma di perversione sociale – come vengano ancor oggi propinate teorie di questo tipo, utili forse demagogicamente sul piano del consenso politico spicciolo ma umanamente ed evangelicamente inaccettabili. “Il Signore – ha affermato ieri papa Francesco all’Angelus – ci chiederà conto di tutti i migranti caduti nei viaggi della speranza. Sono stati vittime della cultura dello scarto”.
Solo l’abbraccio tra tutti gli uomini e l’abbraccio dell’umanità alla madre Terra potrà darci futuro e speranza.
Tratto dal sito dell’Ufficio stampa dell’Arcidiocesi di Palermo
Seminario "MIGRAZIONI: PRASSI OPERATIVE E RICERCHE SCIENTIFICHE" - martedì 30 giugno, ore 15 - Piattaforma Microsoft Teams
Di seguito i link ai video della registrazione del seminario (i link sono raggiungibili dal personale strutturato Unipa):
Prima parte (3:25:10):
https://web.microsoftstream.com/video/ad1378c2-4742-419f-92a6-8e0e19bde389
Seconda parte (47:35):
https://web.microsoftstream.com/video/94a1bac8-a6e7-4fda-81ec-1d22b056fe1d
Sulla tutela e l’accoglienza dei profughi
In questi giorni, la presenza di un flusso di profughi verso le nostre coste ha indotto il Governo italiano a emanare, a causa della pandemia, un decreto interministeriale, firmato da quattro ministri, che ha dichiarato i porti italiani non sicuri.
Il Centro interdipartimentale Migrare. Mobilità, differenze, dialogo, diritti dell’Università degli Studi di Palermo rivolge un appello alle autorità nazionali affinché vengano garantite immediatamente la tutela e l’accoglienza dei profughi attualmente prossimi alle nostre coste. Urge in particolare consentire l’approdo dei 149 migranti a bordo della nave Alan Kurdi, al largo di Termini Imerese, per tutelare la salute sia dei migranti sia dei soccorritori.
Il Centro auspica anche che venga in ogni momento garantito il diritto e il dovere di soccorrere i naufraghi, nel rispetto delle convenzioni internazionali e della nostra Costituzione.
Soprattutto in questo periodo di incertezza e preoccupazione per la salute di ognuno di noi, appare particolarmente impellente l’esigenza di ribadire concretamente l’importanza prioritaria dei valori fondanti della solidarietà, della salute, della libertà, e del rispetto di ogni vita umana, a partire da quella dei soggetti più deboli e indifesi, quali che siano la loro etnia e la loro provenienza.
Nota del Centro di Ricerca "Migrare" sul ricorso all’aborto da parte delle donne straniere presenti in Italia
Photo by Federica Iezzi
Le recenti polemiche politiche sul ricorso all’aborto da parte delle donne straniere presenti in Italia dimostrano innanzitutto una scarsa conoscenza del sistema sanitario italiano, che certamente non prevede che l’interruzione volontaria di gravidanza sia praticata in Pronto Soccorso.
Altra considerazione imprescindibile, nell’ottica di una offerta equa del servizio sanitario, è che le donne migranti, così come le cittadine italiane, hanno diritto a essere padrone di sé stesse e a decidere autonomamente. È responsabilità di noi tutti fare sì che ciò venga garantito rendendo questa scelta davvero libera: dunque informata e scevra da qualsiasi condizionamento economico, fisico o psicologico.
Inoltre, una valutazione obiettiva della questione non può non prendere in considerazione alcuni aspetti di particolare rilevanza:
1. Le donne migranti si trovano in una condizione di vulnerabilità, ovvero di maggiore esposizione al rischio di danno o ingiustizia. Pertanto è essenziale prestare grande attenzione alla tutela della loro salute, ivi compreso il loro diritto ad abortire che, proprio in ragione dell’esercizio del diritto alla salute, è garantito a tutte le donne.
2. Esistono potenziali difficoltà nell’impiego di metodi contraccettivi da parte delle donne straniere presenti in Italia perché solo alcuni contraccettivi sono stati inseriti in fascia A (e sono pertanto prescrivibili con il SSN) o per via di una difficoltà nella comprensione delle modalità di assunzione (ricordiamo che i foglietti illustrativi dei farmaci sono solo in lingua italiana). Per quanto concerne poi il ricorso a metodi contraccettivi meno costosi quali i preservativi, esso può essere un'alternativa solo in situazioni di rapporto consenziente. Anche in questi casi, tuttavia, alla luce del fatto che il rapporto uomo-donna è generalmente non paritario (e non solo per le donne straniere in condizione di migrazione), esso può costituire un problema per una scelta consapevole rispetto alla gravidanza.
3. Vi sono potenziali differenze culturali e una probabile assenza di un’educazione alla sessualità e alla contraccezione, sia a scopo contraccettivo che come strumento di prevenzione delle malattie.
4. Vanno considerati i possibili abusi subiti dalle donne straniere sia in territorio italiano (ove comunque, proprio in quanto soggetti vulnerabili, le donne spesso non denunciano le violenze subite), sia nei luoghi di provenienza o di passaggio, con particolare riferimento alla Libia, ove con sempre maggiore chiarezza i dati a nostra disposizione dimostrano gli abusi sessuali subiti dalle donne migranti.
5. Qualsiasi politica di restrizione nell’accesso all’aborto determinerebbe esclusivamente il riemergere della terribile pratica dell’aborto clandestino, con ricadute devastanti sulla salute delle donne, ma anche con potenziali costi aggiuntivi ben più elevati per il sistema sanitario, che dovrebbe curare le pazienti che vanno incontro a complicazioni dovute alle carenze igieniche o alla mancanza di competenza di chi porta avanti tale pratica illegale.
6. L’accesso ai servizi del sistema sanitario, ivi inclusa l’interruzione volontaria di gravidanza, è un’importante opportunità di garantire non solo una singola prestazione, ma un primo contatto e un coinvolgimento in un processo di cura che tuteli donne che possono trovarsi in condizioni di salute precarie.
La stessa legge 194/1978 evidenzia l’esistenza di un diritto alla procreazione cosciente e responsabile e sottolinea che l’interruzione volontaria di gravidanza non possa essere vista come un mezzo di controllo delle nascite: questi necessari assunti di base indicano con chiarezza la necessità di attuare politiche di educazione alla sessualità responsabile, ma non giustificano affatto alcun tipo di restrizione o obbligo di pagamento per una prestazione sanitaria che, coerentemente con l’impostazione del nostro sistema sanitario nazionale e con il dettato della Costituzione stessa, tutela il diritto alla salute come diritto di qualsiasi individuo presente sul territorio italiano, indipendentemente dalla sua cittadinanza.
Appello alla comunità accademica italiana
Allarmanti dati di stampa degli scorsi giorni riferiscono dell’arresto, operato in territorio egiziano, di Patrick Zaki, che frequenta in Italia il Master internazionale in Women's and Gender Studies dell’Università di Bologna e che era appena arrivato in Egitto per trascorrervi alcuni giorni ricongiungendosi alla propria famiglia di origine. Nell’esprimere viva preoccupazione per le notizie di violenze e abusi che uno studente del sistema universitario italiano avrebbe subìto nel corso di una detenzione originata da una mera professione di idee, e nella consapevolezza che la libera mobilità di studenti e studiosi costituisce, per il sistema universitario italiano come per l’intero network accademico mondiale, preziosa fonte di ricchezza in quanto strumento di dialogo, di circolazione di idee e di condivisione di saperi, il CIR “Migrare” formula il fermo auspicio che la comunità accademica italiana voglia chiedere alle Pubbliche Autorità di dispiegare ogni azione utile affinché sia concretamente garantito il pieno rispetto della dignità, dell’integrità e delle prerogative individuali delle persone ristrette nella libertà personale e sia riaffermato e tutelato il diritto di ciascuno alla libera manifestazione del proprio pensiero.
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