Figure dell'immersività
- Autori: lucia corrain;mirco vannoni
- Anno di pubblicazione: 2021
- Tipologia: Curatela
- OA Link: http://hdl.handle.net/10447/533622
Abstract
Con l’avvento delle tecnologie digitali si assiste progressivamente al diffondersi del termine immersività. Questo lemma, che ha la sua radice nel latino mergĕre, tuffare, rimanda a forme esperienziali di un corpo completamente avvolto e inglobato, e rende conto di un rapporto con l’immagine, e in generale con l’oggetto di conoscenza, da una dimensione puramente astantiva a una immersiva, in cui l’esperienza si fa presenza (Eugeni 2018). In questa accezione, l’effetto immersivo solleva una serie di questioni che chiamano in causa la dimensione genealogica delle varie forme mediali e le strategie di costruzione dell’esperienza estetica elaborate in seno alla storia delle arti e delle immagini. Il rapporto fra dispositivi quali Smart Glass e visori VR e i più antichi strumenti ottici pre-cinematografici non può ridursi a un principio evolutivo: ne sono un esempio nel XIX secolo lo stereoscopio (Crary 1990) o il panorama (Grau 2003), che condividono con i più recenti ritrovati tecnologici il problema di una «percezione estetica canalizzata» (Montani 2014). Allo stesso modo, la pittura in trompe-l’oeil e il cinema in 3D, le cappelle barocche e le contemporanee durational performance sollevano questioni relative al simulacro di continuità fra lo spazio dell’esperienza e lo spazio rappresentato, ai modi di costruzione di uno sguardo “da dentro” la rappresentazione e agli effetti estesici, veridittivi e passionali che tale prossimità produce. Ciò che le nuove tecnologie supportano è l’idea di un’esperienza estetica in cui sembra collassare ogni distanza fra soggetto e oggetto del sentire e del conoscere: il milieu in cui l’esperienza immersiva si dispiega merita attenzione proprio per la sua peculiarità strategica di riorganizzazione dell’esperienza sensibile. Una simile concezione guida la “competizione per il reale” che nutre le dinamiche di rimediazione (Bolter e Grusin 1999), dinamiche che coinvolgono i dispositivi della visione e rimodulano la pregnanza teoretica del modello di “finestra sul mondo” alla base della teoria prospettica albertiana. Ciò che definiamo “immersività” individua, dunque, un campo stratificato di problematiche e interrogativi che Carte Semiotiche si propone di indagare a partire dalle sue figure, ovvero sul terreno delle sue manifestazioni, nelle opere, nelle pratiche professionali o ludiche, negli strumenti tecnici e negli altri eterogenei materiali che nutrono e rimodellano costantemente l’archivio della cultura. A tal proposito, centrale è in primo luogo una riflessione sull’armatura enunciazionale della rappresentazione e sulle marche responsabili dei suoi effetti riflessivi, a partire dalle profonde trasformazioni e riconfigurazioni della cornice-finestra. La tensione fra opacità e trasparenza costitutiva dell’immersività convoca due questioni strettamente connesse: i modi di costruzione di effetti di realtà e i regimi di verità da cui essi dipendono, che la semiotica considera in termini di veridizione e più in generale di strategie persuasive responsabili di far sapere e far credere vero; la centralità del corpo e dell’estesia all’interno dell’esperienza immersiva, che convoca l’insieme di problematiche legate all’efficacia delle immagini. Al centro di tale rapporto vi è lo statuto, sia cognitivo che passionale dell’osservatore, o meglio dell’istanza soggettiva immanente che l’immagine co-istituisce insieme al proprio oggetto. L’esperienza sensoriale preposta dall'ambiente immersivo non si riduce ai soli stimoli visivi, ma prevede movimenti e spostamenti del corpo, e le durate e i percorsi di ogni realizzazione concreta dipendono dalle azioni del soggetto incarnato della singola pratica. L’analisi dell’intelaiatura scopica inscritta nel dispositivo immersivo non è dunque sufficiente a rendere conto degli effetti di soggetto e dei modi della sua costruzione. Da un lato, la dimensione protesica