Cosa scrivere da antropologo, come scrivere sull’Alzheimer
- Authors: Montes, Stefano
- Publication year: 2018
- Type: Articolo in rivista
- OA Link: http://hdl.handle.net/10447/662265
Abstract
In questo saggio pongo deliberatamente in essere un modo non convenzionale di scrivere al fine di mettere a fuoco sulle operazioni mnestiche di un soggetto: me stesso in trasferta sofferta. Faccio un elogio della memoria: della sua capacità di renderci umani, della sua forza instauratrice di interazioni. Mi trasformo in narratore che si lascia narrare (Derrida) per affondare nel mistero del vivere che rasenta l’ovvio e pur tuttavia è magico. Interrogo il mio passato – sotto forma di saggi scritti – e mi concedo alle ibridazioni concettuali, procedendo allo stesso tempo per gradi bathomologici (Barthes). Non oppongo resistenza al lavorio del tempo: lasciando che disincantate sensazioni impregnino nudi pensieri in corsa; lasciando che il ricordo, simile a raggi di sole, indichi – nello scorrere della vita – ciò che è di primo acchito poco visibile. Il “tempo per [i Nuer] è una relazione tra le attività” (Evans-Pritchard). E così è per me: intreccio relazioni tra attività disseminate nel passato, nel presente, riconvertite, tradotte in testo. Scrivo per non pensare alla memoria che si azzera: all’Alzheimer, alla memoria dimentica di se stessa, alla cancellazione delle radici, alla revoca progressiva dell’identità, all’oblio di sé, d’altri. E io scrivo: per tenere a bada i pensieri che corrono all’Alzheimer e alla memoria intaccata di mia madre priva della sua identità d’un tempo. Scrivo sull’Alzheimer e mi disorienta perché sono posto di fronte all’essenza del tempo, alla vulnerabilità rispetto al suo essere scorta verso il morire. Non c’è possibilità di scelta per l’individuo ammalato di Alzheimer, non c’è possibile oscillazione tra (recupero del) passato e (proiezione nel) futuro: non c’è il piacere di risiedere nel presente e di goderselo con la coscienza di chi può dondolare ancora nel futuro o nel passato. E io scrivo: sul ricordo in quanto traccia d’assenza che implica una effettiva mancanza, nonché sgretolamento del senso dell’essere persona. Scrivo per cominciare ad azzerare – doveva succedere – il mio conto con la memoria, con il passato, mettendo a fuoco su una persona cara, nel disagio della malattia, facendomene carico da antropologo: per averne consapevolezza. Non è forse questo il senso dell’antropologia? Produrre consapevolezza. Passo allora in rassegna la memoria che avevo di alcuni miei saggi valutando – ripensando ai – vantaggi e svantaggi prodotti dallo scegliere un tema piuttosto che un altro. Pensandoci, mi lascio andare al ‘gioco linguistico’ di una più consapevole scrittura automatica che consente una maggiore libertà rispetto alle costrizioni imposte da una coscienza pianificatrice. In quale modo adempiere meglio a questo presupposto se non attraverso l’uso del verbo al condizionale che consente al contempo di mettere in prospettiva un atto realizzandolo già, in qualche modo, nel processo stesso dettato dalla condizione? Quale migliore espediente per volgere un intero testo – nonché la persona che lo scrive e forse pure il lettore che lo legge – nella direzione dell’oscillazione, del dondolio liberatore?