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PASQUALINA FARINA

La nuova disciplina della fase di omologazione e di esecuzione del concordato fallimentare

Abstract

Anche se la funzione ed i presupposti e del concordato fallimentare sono rimasti sostanzialmente immutati, le recenti riforme hanno riscritto l’art. 129 l. fall. ed apportato significative innovazioni alla disciplina del giudizio di omologazione. Tale disposizione prevede due distinti procedimenti, a seconda che la proposta concordataria sia stata approvata da tutte le classi o soltanto dalla maggioranza delle classi e siano state sollevate o meno opposizioni. Segnatamente il procedimento di «omologazione» presuppone che la domanda di concordato sia stata approvata da tutte le classi dei creditori ovvero che nessuno dei legittimati abbia proposto opposizione. Viceversa, il procedimento si svolge con forme più complesse e si definisce di «approvazione» ogni volta che il concordato non abbia ottenuto il consenso di tutte le classi dei creditori ma della sola maggioranza; e che il collegio abbia approvato la proposta dopo aver verificato che i creditori dissenzienti possano risultare soddisfatti dal concordato «in misura non inferiore alle alternative concretamente praticabili».Va pure segnalato che nel vigore della legge fallimentare del 1942 all’autorità giudiziaria era demandata non soltanto la valutazione della regolarità formale dell’iter procedimentale e dell’attendibilità del piano concordatario, anche in riferimento alla successiva fase di esecuzione, ma era tenuta a vagliare la congruità della proposta rispetto agli eventuali risultati conseguibili attraverso la liquidazione fallimentare dell’attivo. Se in passato il tribunale era investito della regolarità e del merito della proposta, sia in relazione alla fattibilità che alla convenienza della proposta, il novellato artt. 129 ss. l. fall. delinea, uno scenario completamente diverso. A ben guardare, il legislatore del 2005-2006 per adeguare la giustizia, così come amministrata dai tribunali fallimentari, alle istanze provenienti dal mondo del commercio, ha restituito alla legge fallimentare quell’impostazione liberale propria del Codice di Commercio del 1882, che nei primi decenni del secolo scorso era stata additata come la causa delle inefficienze dell’allora vigente sistema fallimentare. Le modifiche erano imposte dal fatto che la disciplina del fallimento, contenuta nel III libro del Codice di Commercio del 1882, risultava non solo poco efficace in relazione alla tutela dei creditori ma anche eccessivamente lunga e costosa. L’ordinamento fallimentare dell’epoca presentava, dunque, patologie ed elementi di criticità che le riforme di quegli anni si prefiggevano di superare sia attraverso l’applicazione del principio della celerità e della concentrazione del processo di fallimento, sia mediante il riconoscimento in capo al giudice delegato di ampi poteri funzionali alla repressione di abusi posti in essere da commercianti fraudolenti e da curatori poco onesti. Anche se lo spirito sotteso al rinnovamento della legge commerciale del 1882 coincideva, in larga parte, con quello proprio delle riforme dei nostri giorni, gli indirizzi di politica legislativa si collocano esattamente agli antipodi. In effetti, i due ordinamenti sono antitetici non tanto per il contenuto delle rispettive norme, quanto piuttosto per i due modi, assolutamente incompatibili, di concepire le procedure concorsuali. In altri termini in seguito alle recenti riforme, con un percorso inverso rispetto a quello battuto dal legislatore fascista, le fondamenta sulle quali era stato edificato l’istituto del fallimento e dei concordati giudiziali - vale a dire il superiore interesse dello Stato alla più rapida ed efficiente liquidazione delle imprese dissestate – vengono infrante in nome della privatizzazione della crisi dell’impresa.