Il linguaggio delle donne fuoriuscite dalle mafie
- Authors: Dino A.
- Publication year: 2015
- Type: Articolo in rivista (Articolo in rivista)
- OA Link: http://hdl.handle.net/10447/121384
Abstract
Lo studio dei ruoli femminili in Cosa Nostra, pone di fronte alla necessità di destrutturare alcuni pregiudizi che, su questo argomento, si sono consolidati nel tempo; primo fra tutti, quello legato a una rappresentazione delle donne di mafia che vede sottodimensionata la loro partecipazione alle attività criminali dell’organizzazione, mentre ne enfatizza la presenza nella dimensione familiare, fondandola su componenti emotive e su valori “tradizionali”. Tale rappresentazione –diffusa e condivisa sia all’interno che all’esterno dei contesti mafiosi – oltre a essere il frutto di una riflessione superficiale sul fenomeno, si è rivelata a lungo funzionale alle finalità criminali dell’organizzazione, che della presunta estraneità femminile ha potuto a lungo beneficiare trovando nelle donne – ampiamente coinvolte nella vita quotidiana dell’organizzazione – quasi una valvola di sicurezza, un territorio di sicura impunità, un luogo mai soggetto a sguardi indiscreti. Un primo correttivo da apportare, riguarda i modelli cognitivi utilizzati e comporta la presa d’atto che l’universo mafioso non rappresenta un sottomondo isolato, abitato da soggetti “altri”, ma è una porzione della nostra società nella quale risultano accentuate – sia per le finalità criminali dell’organizzazione, sia per i modelli volutamente tradizionalisti adottati nelle relazioni interpersonali – le caratteriste e i tratti culturali dell’ambiente circostante. Se di esclusione femminile si poteva e si può parlare, questa va vista in stretta connessione con le situazioni di emarginazione e di minorità che contraddistinguono le relazioni tra le donne e gli uomini nella gestione della sfera del potere. Donne, apparentemente escluse e estranee dall’universo mafioso perché volutamente relegate ai margini. Ma anche perché le finalità e le azioni del consesso criminale, la sua stretta relazione con la sfera del potere e della gestione della cosa pubblica, difficilmente rientra – in situazioni di “normalità” – entro competenze e mansioni riconosciute specificatamente come “femminili”. Se a questo si aggiunge il fatto che un eventuale riconoscimento pubblico della presenza delle donne nei contesti mafiosi, oltre ché far venir meno un solido alleato, contribuirebbe a togliere la patina di opacità che nel tempo ha reso invisibile le loro figure, ci si accorge di quanto alta sia la posta in gioco. Percorrendo la storia e gli strumenti attraverso i quali si manifesta il “potere” delle donne di mafia e la violenza da loro agita – ma più spesso subita e/o condivisa con gli uomini dell’organizzazione – il saggio si sofferma ad esplorare il potere della parola femminile dentro il mondo di Cosa Nostra. La presenza femminile nel mondo delle mafie, prima addomesticata e poi accettata per ragioni strumentali, mette in tensione dall’interno le dinamiche mafiose, scardinandone la struttura attraverso l’applicazione di una prospettiva di genere. Di una parola – scritta o parlata che sia – connotata da una specificità di genere (o forse solo libera dai legami con la falsa neutralità del linguaggio maschile), colpisce innanzitutto la forza destrutturante con la quale è possibile trasformare le logiche opprimenti in processi di autocoscienza; rompere gli automatismi della socializzazione differenziale e della subcultura sessuale dai quali è pervasa la nostra quotidianità; metterne a nudo gli effetti narcotizzanti del simbolico, ben descritti da Goffman e da Bourdieu. Tutto procede speditamente, quasi fosse naturale fino a quando l’ordine non viene messo in discussione. E allora, la repressione della disobbedienza – anche di quella “solo” verbale – è estremamente violenta. Il linguaggio che nomina quanto dentro il mondo di Cosa Nostra è indicibile si trasforma in un’arma capace di rompe