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IGNAZIO BUTTITTA

Dei riti di questua o della reciprocità asimmetrica

Abstract

Le apparenti peculiarità delle questue-cerimonie, rispetto alle altre forme di questua, sono essenzialmente relative alla presenza di una prestazione “espressiva” e al destino finale dei beni raccolti. Per quanto attiene al primo punto può rilevarsi che laddove siano assenti anche le più elementari forme di prestazione espressiva, interviene l’offerta immediata da parte dei questuanti di immagini di santi o oggetti sacralizzati (questue individuali o collettive per le feste patronali, ecc.) nonché l’offerta differita di una attenzione da parte di potenti entità extraumane; inoltre, sul piano sociale, si attiva il potenziale obbligo a dare del richiedente in analoghe circostanze. I questuanti rituali sono sempre cioè altro da se stessi e precipuamente agenti del sacro, inviati del divino. Il dono è dunque, tanto più quando rivolto alle potenze trascendenti, una forma di investimento a garanzia del futuro benessere: «Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore
che gli ripagherà la buona azione» recita un proverbio di Salomone (Prv. 19, 17). La dazione non è in nessun caso atto neutro. Il gesto del donare è solo in certi casi, e solo indirettamente, riferibile all’istituto cristiano della carità. Esso si inserisce sempre in un ampio circuito di relazioni e di scambi. Il donare al questuante non è mai dissipazione. Esso avrà sempre un ritorno su diversi piani tra loro interconnessi: la gratitudine dei santi e dei defunti, il riconoscimento pubblico della propria prodigalità, il consolidamento delle relazioni interpersonali, il mantenimento della posizione sociale.